lunedì 21 gennaio 2013

«Mi chiamo Carlo e ho la depressione»

MILANO - «Si era presentata così. Mi svegliavo alle 4 del mattino e l’adrenalina che avevo in corpo per far fronte agli eventi di quel momento –il divorzio, la morte improvvisa di mio padre, la perdita di tre quarti dei miei clienti-, era completamente sparita. Ero scarico. Crollato. Volevo morire. Oggi so che si trattava di depressione reattiva». Carlo Aliverti, 50 anni, consulente aziendale, libero professionista, è un “facilitatore” dei gruppi di auto-aiuto di Progetto Itaca, Onlus di cui parla Corriere per Voi domenica 20 gennaio nella pagina dedicata alla Città del Bene.


Carlo AlivertiCarlo Aliverti
«Prima di approdare all’associazione che mi ha rimesso in sesto, e per la quale oggi sono volontario –continua-, sono stato in terapia due anni da uno psicoanalista junghiano. Senza risultati». Qual era il problema? Perché non funzionava la terapia precedente? «Nei gruppi di auto-aiuto nessuno ti guarda con lo sguardo attento ma un po’ vago dell’analista: in quello studio temevo che il terapeuta non capisse il significato di dolore, che non comprendesse il desiderio di morire che in quel momento mi accompagnava», spiega ancora Carlo Aliverti. «Quando sono arrivato in quest’associazione, dove chi aiuta ha ricevuto aiuto, tutto è cambiato –ricorda-. Solo chi ha conosciuto la realtà della depressione o degli attacchi di panico può aiutare, e infatti nel gruppo mi sono sentito subito capito. Non ero più escluso, giudicato, dannato, sfigato. La mia guarigione è iniziata così».

Adesso Carlo la racconta come se fosse facile. Ma, provate a immaginare una persona che si siede davanti ad altre sette e racconta che desidera solo morire. Tutti i giorni che Dio manda in terra. E da quelle sette persone arrivano l’empatia e la partecipazione che tre professionisti (tanti sono gli studi privati che Aliverti ha girato prima di rivolgersi ai volontari), non sono stati in grado di dare. «Prima avevo incontrato freddezza. La lucidità dei medici, ma nulla di umano, di vivo, cioè quello che a me serviva e che ho trovato nell’auto-aiuto –aggiunge il volontario-. Sono cambiato molto da quando ho frequentato i gruppi: ho imparato a confidarmi di più e ho capito che non è una debolezza ammettere quali sono le proprie fragilità».

I partecipanti ai gruppi di auto-aiuto, che siano persone sofferenti di disturbi psichici oppure loro parenti, si riuniscono ogni settimana portando testimonianze, sentimenti, sensazioni, pensieri da condividere. Nessuno giudica, nessuno critica: questa è la sola regola. «Il livello di comunicazione è molto forte e la parola ha effetto taumaturgico – conclude Aliverti-. La malattia psichica è in costante aumento: va riconosciuta e curata. Per questo andiamo nelle scuole per fare prevenzione: proiettiamo film come Beautiful Mind o Mr. Jones, che affrontano i temi della schizofrenia e del disturbo bipolare, e un mese dopo affrontiamo l’argomento con gli studenti. Regolarmente i professori ci dicono che nessun tema interessa i ragazzi come il disagio psichico».

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