00:44 sto per spegnere il computer, ma vengo attratta dall'ultima mail che la rivista Giunti mi ha inviato. Mi dimentico dell'ora, comincio a leggere e non posso aspettare domani (ma è già domani!) e lo pubblico. Sono anni che combatto con questo modo chiuso di correggere, di accomodare, di giudicare i disegni dei bambini!
Finalmente ho la certezza, continuerò a perseverare nelle mie posizioni, mai cercare di interpretare il disegno dei bambini, lasciare a loro il tempo per raccontare, dire e quando non riescono a farlo, hanno comunque voluto comunicare qualcosa!
I disegni dei bambini sono opere aperte
alla comprensione del mondo.
"Libertà va cercando che è sì cara…", scrive Dante nel primo canto del
Purgatorio. La libertà non è data, va cercata. E questa ricerca porta
verso una strada faticosa, “cara”, che può costare anche impegno,
sforzo, rinuncia. Se c’è una parola amata, abusata, piegata, desiderata,
questa parola è, nel nostro tempo, proprio la parola “libertà”. Essere
liberi è aspirazione, necessità, desiderio, è tensione per tutti noi, ma
è anche una eterna utopia. Essere liberi di pensare, di esprimersi, di
agire, essere liberi da condizionamenti e da pressioni… È una utopia
facile da dire, ma difficile da vivere.
“Disegnare liberamente” è stato uno slogan pedagogico in uso nella
scuola italiana per molti anni. Un foglio, delle matite, un tempo e uno
spazio parevano garanzia di libera espressione, di creatività grafica,
di produzioni artistiche infantili.
Oggi tutti sappiamo che anche i bambini piccoli non sono “liberi”
quando disegnano. Le loro produzioni risentono dei giudizi degli adulti,
delle immagini che hanno visto, degli strumenti che hanno a
disposizione, della situazione contestuale ecc.
I bambini non sono liberi nel disegnare. Sono sempre culturalmente condizionati. L’educazione dovrebbe aiutarli a “liberarsi” dai condizionamenti, rendendoli freschi, elastici, relativi.
Sul come questo si possa fare, la discussione è aperta.
Sostanzialmente si confrontano due scuole: una propone di sviluppare l’efficacia comunicativa attraverso una
ricerca “interiore”,
soggetta solo ai limiti materiali del contesto. Una ricerca che ha lo
scopo di allentare i legami con i condizionamenti ricevuti, con le paure
dei giudizi… È la strada – ad esempio – che si segue nei closlieu
(atelier) di Stern, dove la ripetizione, la lentezza, la calma,
insegnano ai bambini a “non sfiorare le cose” che disegnano, ma anzi
aiutano a ritornarci sopra, a ripetere ancora una volta lo stesso
schema, a sviluppare la passione per le rappresentazioni che stanno
facendo. Questa “liberazione” del “mondo interno”, in una situazione
accogliente e non valutativa, rafforza la sicurezza e rende la persona
“felice come un bambino che dipinge”.
L’altra scuola di ricerca di “libertà” espressiva si basa sul
confronto esterno,
su un rapporto triangolare fra bambino, il proprio mondo interno e il
confronto con artisti che hanno trovato un loro personale modo per
esprimere il loro “mondo interno”. Con questa tendenza si discute se
“tutte” le epoche artistiche possano essere comprese dai bambini o se
occorra avvicinarli prevalentemente alle opere degli artisti
contemporanei. Le opere che vengono utilizzate sono comunque osservate,
spiegate, discusse, scomposte, rielaborate, “rubate” tecnicamente. Da
questo lavoro deriva non solo il piacere di ottenere dei risultati
gustosi e stimolanti, ma soprattutto la consapevolezza che per
raccontare con le immagini la ricerca della verosimiglianza non è
l’unico percorso possibile. Esistono oggi molti luoghi, anche fuori
dalla scuola (musei dei bambini, laboratori d’arte ecc.), dove si può
“girare attorno all’arte” (per usare un’efficace immagine di De
Bartolomeis).
Sviluppare la competenza comunicativa
In tutti e due queste strade l’attenzione è rivolta ad alleggerire i
bambini dal peso dei condizionamenti culturali che essi incontrano
quotidianamente, per raggiungere una competenza comunicativa efficace.
Il disegno, inteso come comunicazione, richiede la
capacità di saper distinguere fra linguaggio denotativo (che è descrittivo)
e linguaggio connotativo
(che è legato ai pensieri e alle emozioni che “alterano” la descrizione
“oggettiva” delle cose). Disegnare è un atto comunicativo
interno/esterno che mette in relazione con se stessi o con gli altri,
necessita dunque di tutte e due i linguaggi. Il dramma/dilemma di ogni
bambino che disegna è cercare di dar forma a qualcosa di personale (e
come tale sempre un po’ indefinito, nebuloso, mutevole) attraverso forme
che consentano di mostrare in chiaro ciò che vuol rappresentare (per
questo si devono usare gli schemi, gli script, gli stereotipi).
Il
paradosso rappresentativo – rendere precisa una
cosa imprecisa – produce, nei piccoli disegnatori, frustrazioni (“non si
capisce quello che hai fatto”, “è un cappello”, dicono i grandi al
Piccolo Principe, e invece era “un boa che digeriva un elefante”) e lodi
(“che bel disegno”, “sembra proprio una casa”…). Questa inquietante
oscillazione è una delle ragioni che frenano la produzione grafica man
mano che i bambini crescono.
Nelle rappresentazioni infantili (ma anche in quelle adulte a carattere
artistico) non è possibile rappresentare tutto ciò che si vuol
comunicare. Non esiste una casa che possa essere resa visibile nella sua
completezza. Se voglio far vedere com’è “una” casa posso usare degli
stereotipi
(ma allora non svolgo una ricerca artistica, realizzo un’opera
denotativa). Se voglio far vedere la “mia” casa, la cosa è più
complicata. Perché la mia casa non ha soltanto una forma caratteristica
che in qualche modo la differenzia dagli altri, ma è anche una casa che
io percepisco non soltanto con gli occhi. La mia casa non è la
fotografia di una casa, ma è la mia interazione con la casa. Io guardo
la mia casa mentre ci vivo dentro. E se ci vivo la sento pulsare, ne
percepisco i rumori, gli odori, ne respiro l’aria famigliare… E allora
la casa si arricchisce di attributi “impalpabili”. Come si disegna una
casa rumorosa? Una casa triste? E una felice? E una odorosa del pranzo
della domenica?
Il gioco del come se…
Dilemmi, che non è facile risolvere, neppure per un adulto. Per
sfuggire al dramma dell’imprecisione, i bambini usano alcuni meccanismi
della comunicazione linguistica. Una casa rumorosa? È “come” una
stazione ferroviaria, e la fanno assomigliare a un treno. Una casa
triste? È “come” un albero senza foglie. E il vento? “È come un orso, mi
fa paura”, dice Marco che ha appena tre anni e sta disegnando una casa
mentre tira un forte vento.
Di fronte all’impossibilità di comunicare “tutto” e con esattezza, i
bambini chiedono aiuto alle similitudini e alle metafore, aggiungendo
così evocazione all’imprecisione, ed esponendo ciò che loro producono a
una lettura ancora più “imprecisa”. I loro disegni diventano
“un’opera aperta”,
come ha scritto diversi anni fa Umberto Eco. Quello che meraviglia noi
adulti è che, anche a livelli di età molto bassi, i bambini trovino
maniere grafiche “curiose”, non solo alterando (nelle dimensioni o nei
colori) gli elementi rappresentati, ma presentandoci situazioni in forma
di similitudine se non di vera e propria metafora.
Il disegno di Giulia
(4 anni) è significativo in tal senso e vale la pena osservarlo,
seguendo le sue spiegazioni. Nell’illustrazione possiamo vedere una
bambina in mezzo a sei fiori. I fiori di sinistra sono le sue amiche. Le
ha disposte in ordine di importanza, riconoscibile dall’altezza dei
fiori.
L’amica-fiore che sta nel mezzo, è colorata di nero perché ha da poco litigato con lei a causa di un bambolotto.
I tre fiori di destra sono gli altri componenti della famiglia. La
mamma è il fiore più alto perché “è sempre buona e sorride sempre”. Il
papà sta nell’angolo di destra “perché è sempre via al lavoro ed è
sempre arrabbiato” (da qui il colore blu). Giulia dice che ha fatto le
mani grandi per abbracciare tutti e che i fili che escono dalla sua
testa sono i suoi pensieri. Lei pensa tutti e due i gruppi e quando è
con loro è felice e le sembra di volare (e in effetti la sua immagine
non tocca terra).
La guida degli adulti
Le “opere aperte” dei bambini presentano spesso dei tentativi di
comunicazione che utilizzano spostamenti e parallelismi, come avviene in
molte opere artistiche. Se così stanno le cose, dobbiamo dire che
i bambini vanno aiutati a disegnare l’esplicito e l’implicito, il
visivo e il percettivo, lo statico e il mutevole, il realistico e il
simbolico (che è poi la ricerca costante che fanno anche gli
artisti adulti). Chi disegna va aiutato a divenire “libero” dai
condizionamenti e dagli stereotipi. E dobbiamo anche dire che – anche al
di là delle strade che didatticamente si perseguono –, i bambini vanno
aiutati a sentirsi “liberi” di ricercare forme comunicative efficaci,
anche se contengono accostamenti e allusioni poco rispondenti alle
raffigurazioni canoniche.
Ogni bambino va aiutato a disegnare in maniera personale, unica,
irripetibile. In questo lavoro di “liberazione” grafico-pedagogica, alla
domanda che nello stesso canto del Purgatorio ci pone Dante Alighieri –
“Chi vi ha guidati o chi vi fu lucerna?” – potremmo rispondere con
chiarezza: “Ci ha guidati un adulto che ha avuto fiducia in noi, che ci
ha ascoltati e che non ci ha giudicati. Un adulto che ci ha anche messo
in dialogo con quanti altri (artisti o bambini) hanno provato a fare
come noi”.
Gianfranco
Staccioli, pedagogista, docente di Metodologie del gioco e
dell’animazione all'Università di Firenze e Segretario Nazionale
FITCEMEA