venerdì 23 marzo 2012

Libertà va cercando… un bambino che disegna

00:44 sto per spegnere il computer, ma vengo attratta dall'ultima mail che la rivista Giunti  mi ha inviato. Mi dimentico dell'ora, comincio a leggere e non posso aspettare domani (ma è già domani!) e lo pubblico. Sono anni che combatto con questo modo chiuso di correggere, di accomodare, di giudicare i disegni dei bambini!
Finalmente ho la certezza, continuerò a perseverare nelle mie posizioni, mai cercare di interpretare il disegno dei bambini, lasciare a loro il tempo per raccontare, dire e quando non riescono a farlo, hanno comunque voluto comunicare qualcosa!

I disegni dei bambini sono opere aperte
alla comprensione del mondo. 
"Libertà va cercando che è sì cara…", scrive Dante nel primo canto del Purgatorio. La libertà non è data, va cercata. E questa ricerca porta verso una strada faticosa, “cara”, che può costare anche impegno, sforzo, rinuncia. Se c’è una parola amata, abusata, piegata, desiderata, questa parola è, nel nostro tempo, proprio la parola “libertà”. Essere liberi è aspirazione, necessità, desiderio, è tensione per tutti noi, ma è anche una eterna utopia. Essere liberi di pensare, di esprimersi, di agire, essere liberi da condizionamenti e da pressioni… È una utopia facile da dire, ma difficile da vivere.
“Disegnare liberamente” è stato uno slogan pedagogico in uso nella scuola italiana per molti anni. Un foglio, delle matite, un tempo e uno spazio parevano garanzia di libera espressione, di creatività grafica, di produzioni artistiche infantili.
Oggi tutti sappiamo che anche i bambini piccoli non sono “liberi” quando disegnano. Le loro produzioni risentono dei giudizi degli adulti, delle immagini che hanno visto, degli strumenti che hanno a disposizione, della situazione contestuale ecc. I bambini non sono liberi nel disegnare. Sono sempre culturalmente condizionati. L’educazione dovrebbe aiutarli a “liberarsi” dai condizionamenti, rendendoli freschi, elastici, relativi.
Sul come questo si possa fare, la discussione è aperta.
Sostanzialmente si confrontano due scuole: una propone di sviluppare l’efficacia comunicativa attraverso una ricerca “interiore”, soggetta solo ai limiti materiali del contesto. Una ricerca che ha lo scopo di allentare i legami con i condizionamenti ricevuti, con le paure dei giudizi… È la strada – ad esempio – che si segue nei closlieu (atelier) di Stern, dove la ripetizione, la lentezza, la calma, insegnano ai bambini a “non sfiorare le cose” che disegnano, ma anzi aiutano a ritornarci sopra, a ripetere ancora una volta lo stesso schema, a sviluppare la passione per le rappresentazioni che stanno facendo. Questa “liberazione” del “mondo interno”, in una situazione accogliente e non valutativa, rafforza la sicurezza e rende la persona “felice come un bambino che dipinge”.
L’altra scuola di ricerca di “libertà” espressiva si basa sul confronto esterno, su un rapporto triangolare fra bambino, il proprio mondo interno e il confronto con artisti che hanno trovato un loro personale modo per esprimere il loro “mondo interno”. Con questa tendenza si discute se “tutte” le epoche artistiche possano essere comprese dai bambini o se occorra avvicinarli prevalentemente alle opere degli artisti contemporanei. Le opere che vengono utilizzate sono comunque osservate, spiegate, discusse, scomposte, rielaborate, “rubate” tecnicamente. Da questo lavoro deriva non solo il piacere di ottenere dei risultati gustosi e stimolanti, ma soprattutto la consapevolezza che per raccontare con le immagini la ricerca della verosimiglianza non è l’unico percorso possibile. Esistono oggi molti luoghi, anche fuori dalla scuola (musei dei bambini, laboratori d’arte ecc.), dove si può “girare attorno all’arte” (per usare un’efficace immagine di De Bartolomeis).

Sviluppare la competenza comunicativa

In tutti e due queste strade l’attenzione è rivolta ad alleggerire i bambini dal peso dei condizionamenti culturali che essi incontrano quotidianamente, per raggiungere una competenza comunicativa efficace. Il disegno, inteso come comunicazione, richiede la capacità di saper distinguere fra linguaggio denotativo (che è descrittivo) e linguaggio connotativo (che è legato ai pensieri e alle emozioni che “alterano” la descrizione “oggettiva” delle cose). Disegnare è un atto comunicativo interno/esterno che mette in relazione con se stessi o con gli altri, necessita dunque di tutte e due i linguaggi. Il dramma/dilemma di ogni bambino che disegna è cercare di dar forma a qualcosa di personale (e come tale sempre un po’ indefinito, nebuloso, mutevole) attraverso forme che consentano di mostrare in chiaro ciò che vuol rappresentare (per questo si devono usare gli schemi, gli script, gli stereotipi).
Il paradosso rappresentativo – rendere precisa una cosa imprecisa – produce, nei piccoli disegnatori, frustrazioni (“non si capisce quello che hai fatto”, “è un cappello”, dicono i grandi al Piccolo Principe, e invece era “un boa che digeriva un elefante”) e lodi (“che bel disegno”, “sembra proprio una casa”…). Questa inquietante oscillazione è una delle ragioni che frenano la produzione grafica man mano che i bambini crescono.
Nelle rappresentazioni infantili (ma anche in quelle adulte a carattere artistico) non è possibile rappresentare tutto ciò che si vuol comunicare. Non esiste una casa che possa essere resa visibile nella sua completezza. Se voglio far vedere com’è “una” casa posso usare degli stereotipi (ma allora non svolgo una ricerca artistica, realizzo un’opera denotativa). Se voglio far vedere la “mia” casa, la cosa è più complicata. Perché la mia casa non ha soltanto una forma caratteristica che in qualche modo la differenzia dagli altri, ma è anche una casa che io percepisco non soltanto con gli occhi. La mia casa non è la fotografia di una casa, ma è la mia interazione con la casa. Io guardo la mia casa mentre ci vivo dentro. E se ci vivo la sento pulsare, ne percepisco i rumori, gli odori, ne respiro l’aria famigliare… E allora la casa si arricchisce di attributi “impalpabili”. Come si disegna una casa rumorosa? Una casa triste? E una felice? E una odorosa del pranzo della domenica?

Il gioco del come se…

Dilemmi, che non è facile risolvere, neppure per un adulto. Per sfuggire al dramma dell’imprecisione, i bambini usano alcuni meccanismi della comunicazione linguistica. Una casa rumorosa? È “come” una stazione ferroviaria, e la fanno assomigliare a un treno. Una casa triste? È “come” un albero senza foglie. E il vento? “È come un orso, mi fa paura”, dice Marco che ha appena tre anni e sta disegnando una casa mentre tira un forte vento.
Di fronte all’impossibilità di comunicare “tutto” e con esattezza, i bambini chiedono aiuto alle similitudini e alle metafore, aggiungendo così evocazione all’imprecisione, ed esponendo ciò che loro producono a una lettura ancora più “imprecisa”. I loro disegni diventano “un’opera aperta”, come ha scritto diversi anni fa Umberto Eco. Quello che meraviglia noi adulti è che, anche a livelli di età molto bassi, i bambini trovino maniere grafiche “curiose”, non solo alterando (nelle dimensioni o nei colori) gli elementi rappresentati, ma presentandoci situazioni in forma di similitudine se non di vera e propria metafora.
Il disegno di Giulia (4 anni) è significativo in tal senso e vale la pena osservarlo, seguendo le sue spiegazioni. Nell’illustrazione possiamo vedere una bambina in mezzo a sei fiori. I fiori di sinistra sono le sue amiche. Le ha disposte in ordine di importanza, riconoscibile dall’altezza dei fiori.
L’amica-fiore che sta nel mezzo, è colorata di nero perché ha da poco litigato con lei a causa di un bambolotto.
I tre fiori di destra sono gli altri componenti della famiglia. La mamma è il fiore più alto perché “è sempre buona e sorride sempre”. Il papà sta nell’angolo di destra “perché è sempre via al lavoro ed è sempre arrabbiato” (da qui il colore blu). Giulia dice che ha fatto le mani grandi per abbracciare tutti e che i fili che escono dalla sua testa sono i suoi pensieri. Lei pensa tutti e due i gruppi e quando è con loro è felice e le sembra di volare (e in effetti la sua immagine non tocca terra).

La guida degli adulti

Le “opere aperte” dei bambini presentano spesso dei tentativi di comunicazione che utilizzano spostamenti e parallelismi, come avviene in molte opere artistiche. Se così stanno le cose, dobbiamo dire che i bambini vanno aiutati a disegnare l’esplicito e l’implicito, il visivo e il percettivo, lo statico e il mutevole, il realistico e il simbolico (che è poi la ricerca costante che fanno anche gli artisti adulti). Chi disegna va aiutato a divenire “libero” dai condizionamenti e dagli stereotipi. E dobbiamo anche dire che – anche al di là delle strade che didatticamente si perseguono –, i bambini vanno aiutati a sentirsi “liberi” di ricercare forme comunicative efficaci, anche se contengono accostamenti e allusioni poco rispondenti alle raffigurazioni canoniche.
Ogni bambino va aiutato a disegnare in maniera personale, unica, irripetibile. In questo lavoro di “liberazione” grafico-pedagogica, alla domanda che nello stesso canto del Purgatorio ci pone Dante Alighieri – “Chi vi ha guidati o chi vi fu lucerna?” – potremmo rispondere con chiarezza: “Ci ha guidati un adulto che ha avuto fiducia in noi, che ci ha ascoltati e che non ci ha giudicati. Un adulto che ci ha anche messo in dialogo con quanti altri (artisti o bambini) hanno provato a fare come noi”.
Gianfranco Staccioli, pedagogista, docente di Metodologie del gioco e dell’animazione all'Università di Firenze e Segretario Nazionale FITCEMEA

2 commenti:

  1. Buongiorno, ho lasciato un commento nel post di giovedì 8 Marzo. Non avendo ricevuto risposta ho immaginato non Le sia arrivata la notifica.

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  2. Grazie per la segnalazione, ho risposto nel post di giovedì 8 marzo, approfitto per farle gli auguri anche in ritardo, ma la nostra festa non finisce di sicuro in quella data

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